“Mi auguro non si ritorni al ‘come era prima’, altrimenti saremmo cechi e sordi”: un cammino da rinnovare, tenendo al centro la Parola, le relazioni e la cura, è quello che intravede il nostro parroco, don Ocio, quasi alla fine di questo tempo così inatteso. Nell’intervista lancia anche un campanello d’allarme: “Più ci abituiamo alla distanza più faticheremo ad uscirne”.
Come hai vissuto tu questo tempo?
La prima fase del lock down e il rallentare i ritmi non mi è per niente dispiaciuta. Quando si fa troppo si rischia di non sapere più perché o per chi si fa quello che si fa. Non mi sono sentito meno prete perché non celebravo messa, né sono andato in crisi di attivismo perché non sapevo più che cosa fare. Poi tanto si è riattivato per la necessità di dare una risposta ai bisogni e la vita ha ripreso un ritmo abbastanza pieno.
Che cosa ci ha insegnato questo periodo?
Che la fede si può vivere a casa. Per me è importante la Messa e il ritrovarsi come comunità. Però ci sono un sacco di cristiani nel mondo che la messa non ce l’hanno tutte le domeniche e non per questo la loro fede muore: si nutrono dell’ascolto della Parola di Dio e di vita fraterna, di cui l’eucarestia è la sintesi. Il carattere fondamentale della fede è nella vita: questo periodo ci ha dato la possibilità di vedere che abbiamo strumenti per vivere la nostra fede fuori del tempio. La nostra grande macchina parrocchiale è un pachiderma che alimenta se stesso in modo un po’ autoreferenziale e chiuso. Forse abbiamo bisogno di fare un po’ di dieta anche nella pastorale.
Credo anche abbia insegnato a molti il valore della parola di Dio: i commenti al Vangelo quotidiano che ho fatto per me sono stato il continuare un’abitudine a coltivare la Parola, ma per tanti è stata la possibilità di scoprire che la fede non è fatta di grandi momenti mistici ma è una parola che ogni giorno mi raggiunge e che nel tempo dà gusto e rinnova le giornate.
Credo ci abbia detto il grande valore della comunità: io l’ho sentita più coesa in questo tempo. Penso alla messa in streaming - che non voglio mitizzare perché il corporeo ha un aspetto bello, le relazioni sono essenziali - ma il fatto che sia stata una sola, per tutti, ha dato più consapevolezza di essere comunità e di sentirsi uniti anche a livello intergenerazionale. Forse hanno partecipato alla messa più adolescenti e giovanissimi di quanto non avvenga solitamente.
Quali le difficoltà della “fase due”?
Non dobbiamo abituarci: responsabilità sì, ma paura no. L’abbé Pier diceva: “Non lasciare che le regole e i principi leghino le indiscipline dello Spirito Santo”. Le regole possono allontanarci da un male, ma non è detto che rendano le persone migliori. Dobbiamo fare attenzione a che la coda del tempo che abbiamo vissuto ci faccia male. Alle chiusure ci si abitua e ci si può morire. Più ci abituiamo alla distanza più faticheremo ad uscirne e credo sarebbe molto deleterio per la società.
Finite le restrizioni, la vita in parrocchia tornerà come prima?
Spero che per la naturalezza dei rapporti umani si ritorni a come era prima. La dimensione della carità non si è mai fermata. Invece nella vita della Chiesa (e della società) mi auguro non si ritorni al “come era prima”, altrimenti saremmo cechi e sordi. Per fortuna il Papa ha riaperto la questione della Laudato si’ perché questo tempo ci fa ragionare sul modo che abbiamo di stare in un mondo malato. Spero di intraprendere un percorso a livello di comunità che faccia pratica sulla cura del nostro mondo, del nostro territorio. Nell’immediato e pur con tutte le difficoltà, proveremo a iniziare l’estate ragazzi perché non vogliamo smettere di prenderci cura dei bambini e dei ragazzi. Abbiamo inscatolato i piccoli e i giovani: sono stati bravissimi, i più ligi al dovere di stare in casa, ma sono anche quelli che non devono abituarsi alla distanza. Su loro mi sembra di dover imprimere un’accelerata.
La domanda fondamentale è come noi continuiamo a prenderci cura delle persone nella comunità. E quindi su tante attività non vorrei riprendere come se nulla fosse successo: penso al mondo del catechismo, vorrei incontrare i genitori, classe per classe, con calma per pensare insieme e rileggere questo tempo perché diventi un sedimento comune. Il bisogno di comunicare, che avevamo già nel nostro progetto parrocchiale, diceva già delle esigenze dei cristiani; andrà ripreso alla luce di quello che è accaduto.